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Guida rapida (ma strategica) per startup e aziende alla nuova era dell’AI compliance

L’intelligenza artificiale non è più una frontiera futura: è una presenza attuale, concreta e pervasiva. Dai sistemi di raccomandazione negli e-commerce agli assistenti virtuali, dai modelli generativi per creare contenuti alle soluzioni predittive per il marketing, l’IA è ormai integrata nel tessuto operativo delle imprese innovative.

Tuttavia, in questo scenario spesso manca un tassello molto importante, anzi essenziale: la consapevolezza.

L’approvazione definitiva dell’AI Act (Artificial Intelligence Act) da parte del Consiglio dell’Unione Europea è avvenuta il 21 maggio 2024: si tratta del primo regolamento al mondo interamente dedicato all’intelligenza artificiale. Un testo, certamente, ambizioso che stabilisce principi, obblighi, sanzioni e requisiti di trasparenza, spiegabilità, sicurezza.

Ma soprattutto introduce nell’art. 4 una novità dirompente: l’alfabetizzazione all’Intelligenza Artificiale come obbligo giuridico.

Dall’hype alla responsabilità: perché l’AI Act cambia le regole del gioco

Possiamo dire che fino a ieri, parlare di IA significava confrontarsi con il nuovo. Oggi, invece, significa comprendere i limiti, i rischi e i diritti coinvolti nell’automazione delle decisioni.

L’AI Act nell’ambito della propria struttura normativa introduce e definisce obblighi differenziati per sviluppatori, fornitori e utilizzatori di sistemi IA, con un approccio graduale basato sul rischio.

Tuttavia, ciò che accomuna tutte le figure coinvolte è sicuramente l’art. 4, che stabilisce l’obbligo di garantire competenze e conoscenze appropriate a chiunque abbia un ruolo nello sviluppo, utilizzo o supervisione di sistemi IA.

Questa previsione è democratica e trasversale, infatti non riguarda solo le grandi multinazionali o i reparti legali, ma coinvolge chiunque, all’interno dell’organizzazione, abbia un ruolo nello sviluppo, nell’uso o nella supervisione di sistemi di intelligenza artificiale. Dai team tecnici ai designer UX, dai responsabili marketing agli HR, fino ai product manager e ai recruiter: tutti sono chiamati a comprendere i rischi, i limiti e le responsabilità legate all’uso dell’IA.

L’alfabetizzazione all’IA è un dovere (e un’opportunità)

Cosa prevede l’articolo 4 dell’AI Act?

Nello specifico, l’art. 4, entrato in vigore insieme ad un primo gruppo di norme dell’AI Act  il 2 febbraio 2025, stabilisce che gli operatori coinvolti nei sistemi IA devono ricevere una formazione adeguata alle responsabilità e ai rischi legati al loro ruolo.

Ciò significa che, secondo le previsioni dell’AI Act:

  • chi progetta deve conoscere le implicazioni di bias, explainability e privacy by design;
  • chi utilizza sistemi IA (ad es. per selezionare CV o assegnare priorità ai lead) deve sapere quando serve una supervisione umana;
  • chi decide di adottare un sistema IA deve saper valutare se serve una valutazione di impatto o una documentazione tecnica.

Quali competenze servono?

Appare subito chiaro che l’alfabetizzazione all’IA non è (solo) tecnica, ma coinvolge almeno tre livelli:

  1. Tecnico–funzionale: capire cosa fa un sistema IA, su quali dati si basa, come si comporta in situazioni limite.
  2. Normativo–regolatorio: conoscere gli obblighi derivanti dall’AI Act, dal GDPR e da normative settoriali.
  3. Etico–strategico: valutare l’impatto sull’utente, la fiducia, la reputazione aziendale e l’equità delle scelte algoritmiche.

Cosa è (davvero) l’intelligenza artificiale

Spesso, nel lessico quotidiano, il termine “IA” viene usato in modo generico. Perciò l’AI Act impone una classificazione più precisa.

Vediamo alcuni esempi ricorrenti nei contesti aziendali:

  • Modelli generativi (come ChatGPT, Copilot, Gemini, ecc.): generano testi, immagini, codice o contenuti a partire da un prompt.
  • Sistemi di raccomandazione: suggeriscono prodotti, video, contenuti in base a comportamenti o profili.
  • Algoritmi predittivi: anticipano comportamenti futuri (es. churn dei clienti, propensione all’acquisto).
  • Strumenti di automazione decisionale: assegnano punteggi, approvano automaticamente richieste, filtrano candidature.

Capire come funzionano questi sistemi, su quali dati si basano e con quali criteri prendono decisioni è oggi parte integrante della compliance aziendale.

I rischi nascosti dell’IA nei processi aziendali

Ormai è una certezza il fatto che l’IA può semplificare, accelerare, scalare. Il rovescio della medaglia è che l’AI può anche creare nuove vulnerabilità, spesso invisibili ad un occhio non allenato.

In altri termini, accanto ai benefici, emergono anche vulnerabilità da conoscere, come:

  • Bias e discriminazioni: se l’algoritmo apprende da dati storici distorti, può replicare o amplificare disuguaglianze (es. nel recruiting o nella concessione di prestiti).
  • Deepfake e manipolazione: i contenuti generativi possono essere usati per alterare identità, generare falsi credibili, alimentare disinformazione.
  • Profilazione e targeting opaco: i sistemi predittivi possono determinare trattamenti diversi per utenti simili, senza trasparenza.
  • Violazioni del GDPR: utilizzo di dati personali senza basi giuridiche adeguate, mancanza di informativa chiara, assenza di misure di accountability.

A fronte dei rischi possibili, l’AI Act (e il GDPR) introducono e offrono strumenti, misure e cautele, che è necessario conoscere e integrare nella pratica quotidiana.

Come si scrive (bene) una policy AI aziendale

Uno degli strumenti più efficaci – e spesso trascurati – per monitorare e gestire i rischi  è la policy sull’intelligenza artificiale.

Infatti, è innegabile che una policy ben fatta non serve solo a “mettersi in regola”, ma soprattutto a costruire una consapevolezza interna, criteri di responsabilità e processi chiari da seguire.

I contenuti chiave che non dovrebbero mancare in una policy AI sono i seguenti:

  • Disclosure: dichiarare quando e dove viene utilizzata l’IA nei prodotti/servizi.
  • Spiegabilità: prevedere forme di “trasparenza ragionevole” degli output generati.
  • Supervisione umana: indicare se e quando è previsto un controllo umano.
  • Diritti degli utenti: inclusi opposizione, revisione umana, accesso e rettifica.
  • Governance: definire ruoli, responsabilità e procedure in caso di incidenti o malfunzionamenti.

Inoltre, ogni policy dovrebbe essere concreta, comprensibile, proporzionata al livello di rischio e sempre aggiornata con regolarità.

Essere “AI ready” non è un traguardo, è un percorso

Pertanto, la vera sfida non è essere conformi una tantum, ma costruire una cultura organizzativa che tenga conto della complessità dell’IA.

In sostanza, essere “AI ready” significa:

  • formare i team coinvolti (anche quelli non tecnici);
  • dotarsi di strumenti pratici (checklist, audit interni, policy);
  • adottare un approccio trasversale: legale, tecnologico, etico e strategico;
  • non delegare tutto alla tecnologia, ma riaffermare il valore del giudizio umano e della trasparenza.

Conclusioni: innovare sì, ma con consapevolezza

L’applicazione dell’AI Act, dunque, segna una svolta per chi lavora nell’innovazione: non più nella formula “corri e sperimenta”, ma piuttosto nella formula sperimenta con metodo, responsabilità e sostenibilità giuridica”.

In conclusione, per le start up e le aziende che vogliono costruire soluzioni AI affidabili, scalabili e conformi, la compliance non deve essere percepita come un freno, ma piuttosto  come una importante e valida leva di credibilità e competitività.

 

AvvocatoDaniela Cavallaro

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